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Buon lunedì 22 gennaio.
È il primo giorno che posso dire di stare bene. È dall’8 gennaio che mi porto dietro una influenza che arriva d’improvviso, passa, ritorna, passa e ritorna. Non passa. E così il medico mi manda a fare un RX torace che decreta un focolaio di polmonite. Chiusa in casa, antibiotico, sciroppo e la fatica di accettare uno stop. Un loop che mi strema e mi stanca e mi obbliga a fermare tutto, a mettere in pausa ogni cosa.
Oggi, come dicevo, è il primo giorno che mi sento meglio davvero. E allora eccomi qui.
Un mindset, non solo azioni
Nelle prime settimane di questo gennaio, mi sono ritrovata spesso a riflettere, parlare e cercare un confronto su quel che è davvero importante fare con il nostro lavoro di consulenti per le imprese, per le persone. Spesso ci si focalizza sugli strumenti e si perde di vista quel che davvero conta: un cambio di mentalità. Gli strumenti cambiano, si evolvono. Quel che serve è aiutare le persone e le imprese a comprendere quel che accade intorno e la capacità di leggere la realtà. L’avvento dell’AI, per esempio, ha portato a voler correre ai ripari, invece che provare a comprendere come l’AI possa essere integrata in un piano più ampio.
Mi è capitato spesso di lavorare accanto a organizzazioni che, per quanto convinte di un cambiamento da attuare, vivevano nella convinzione di dover cambiare strumenti, agire sui punti di contatto (touchpoint) o sui canali di comunicazione: dal risolvere criticità attuali alla creazione di nuovi servizi più innovativi o sistemi digitali (come un e-commerce o un sito web).
È tutto positivo, certo. Voler agire e trasformare è un buon intento. Accorgersi che qualcosa non funziona più bene come prima o che non ha mai funzionato bene è importante, ma è solo un ultimo tassello su un disegno più grande.
Quando parlo di Human centered design vengo spesso fraintesa. Non è mai solo un modo di fare le cose, ma di pensare alle cose, alle persone, alle organizzazioni.
Fare Human centered design significa approcciarsi alle cose (modelli organizzativi, processi, persone, risorse, strumenti) con un mindset diverso.
Più che un metodo, lo human centered design è un modo di pensare (un mindset è letteralmente una mentalità) diverso, che permette di affrontare le cose con un atteggiamento e un’attitudine che non guarda solo alla fine del processo, ma dall’inizio e per intero. Come dicevo, cambiare canali e strumenti con l’obiettivo di renderli più efficaci, non risolve il problema giusto.
Se c’è una cosa che continuo a imparare sull’essere ´designer` non è tanto essere aggiornata sugli ultimi trend, sul saper usare nuovi strumenti, sul progettare un canale o riprogettare un processo, ma la capacità di guardare e vedere il quadro complessivo, dove agire è solo l’ultimo step di un processo.
«make sure we anchor to things that last»
Stephen Anderson parla di sviluppo di competenze.
What designers have always done is not changing. What doesn’t change in all of this is what has always defined us: A mindset.
Un nuovo mindset
Sempre Anderson cerca di identificare ciò che distingue il mindset da designer dalla mera professione. Provo a dettagliarli aggiungendo il mio punto di vista.
Identificare il problema (Framing). Un approccio che consiste nel guardare a un problema in maniera diversa: incorniciare un problema, significa spezzettarlo e comprendere dove abbiamo possibilità di agire per risolverlo.
Esplorare possibili soluzioni. Dare forma alle idee, anche attraverso il fare, confrontandosi in team, per fare in modo che le possibili soluzioni possano essere studiate in profondità.
Mantenere fedeltà a valori e principi. Valori e principi sono le motivazioni di ogni designer, il punto fermo di ogni progetto e vengono prima di strumenti e scadenze. Mantenere la rotta su ciò che guida aiuta a non perdersi, qualsiasi sia il lavoro che stiamo facendo.
Gestire la complessità. La complessità è insita in qualsiasi progetto di design, proprio perché la trasformazione, qualsiasi sia il motivo che la richiede, è essa stessa complessa. Gestirla significa anche domarla per cercare e trovare la soluzione più semplice (semplice, non facile) dentro un problema complesso.
Pensare per sistemi (e non dimenticare mai il contesto e i dettagli). Pensare per sistemi significa guardare alle relazioni tra le parti (archi e nodi come direbbe Federico Badaloni) nel suo insieme e non a pezzi. È ciò che è alla base del design sistemico, per esempio: preoccuparsi delle ripercussioni che un cambiamento ha sugli altri sistemi connessi è fondamentale. E non dimenticare i dettagli.
Attenzione ai bisogni delle persone. Preoccuparsi delle persone è un principio con cui non si può scendere a patti: avere a cuore le persone e metterle al centro. E allora aggiungo un tassello importante. Per mettere davvero al centro le persone in qualsiasi processo di trasformazione, serve apprendimento, fatto di ascolto, osservazione, comprensione profonda delle persone, dentro e fuori le organizzazioni.
Scegliere le parole, curare il linguaggio. Fare attenzione al linguaggio che usiamo e arrivare a comprendere meglio, per evitare ambiguità, per capirsi e per lavorare meglio insieme, sia tra professioni diverse, sia con le imprese che affianchiamo. Non possiamo permetterci di non farci capire e non possiamo permetterci di non capire.
Chiedersi sempre come potrebbe essere una situazione. La domanda sfida How might we è un buon inizio per incorniciare il problema che vogliamo risolvere, per vedere (e lavorare) sul come potrebbe essere migliore una certa situazione.
Cercare la positività. Concentriamoci su futuri positivi e possibili, senza aver paura di fallire. Gli insuccessi sono normali. Anzi, a volte essere designer significa fare un passo indietro. A volte, è più importante di farne uno in avanti.
Fare attenzione alle scorciatoie. Detti anche bias, queste scorciatoie si innescano in modo automatico/inconsapevole e influenzano le nostre scelte. Tutto ciò che scegliamo, progettiamo, facciamo ogni giorno subisce l’influenza di bias (consci o inconsci) attivati dal nostro cervello. Come designer non possiamo dimenticarlo mai quando progettiamo.
Se provi a sostituire la parola “designer” con “professionista” o “consulente” vedrai che le cose non cambiano. Per lavorare al fianco delle imprese e aiutarle per davvero a innescare una vera trasformazione che abbia senso e che sia duratura, efficace e di valore serve fare zoom out. Serve aprire lo sguardo, serve coraggio e tanta volontà.
Buon inizio settimana, buon lavoro,
Tatiana (e Chiara)
📃Abbiamo parlato di
Una definizione di Human centered design. Abbiamo iniziato a creare un glossario sui termini che utilizziamo spesso e che fanno parte del nostro gergo tecnico. Proviamo a spiegare con parole semplici.
📍Cose che hanno lasciato un segno
Se sei a Roma il 31 gennaio, potresti partecipare alla presentazione del libro People Matter di Marco Bertoni, moderato da Valentina di Michele
Come può un’agenzia restare rilevante nel tempo? una riflessione interessante partita di un post di Giorgio Soffiato
📚🎧📺 Stiamo leggendo/ascoltando/guardando
Le letture, gli ascolti e le visioni di Chiara
Ho guardato Una mamma per amica: di nuovo insieme, una miniserie composta da 4 lunghi episodi, in onore delle tante ore passate a guardare la serie originale, più di vent’anni fa (Netflix dice che è del 2000). Ho faticato a rientrare nello scambio di battute, velocissimo e irrealistico tipico della serie storica, ma mi è piaciuto molto, perché ha ripreso tutti i personaggi di allora con gli sviluppi avvenuti nel frattempo ed è anche riuscita a stupirmi con quale svolta imprevista nella storia. Non spoilero niente ma se anche tu hai amato le ragazze Gilmore te la consiglio!
Con l’avvio di tanti progetti lavorativi ho di nuovo messo in pausa letture e ascolti, se vado avanti così avrò ben poco da condividere nel prossimo futuro ;-)
Le letture, gli ascolti e le visioni di Tatiana
«Siamo già stati dove non siamo mai stati, e anzi, a dirla tutta, veniamo da lì» È una delle frasi che ho letto nel nuovo libro di Alessandro Baricco che ho iniziato qualche giorno fa. Me la sono appuntatata perché ha tanti significiati profondi. Abel è davvero un libro bellissimo, sì.
In queste giornate in pausa, ho finito di guardare The mandalorian, finita l’ultima stagione di The Crown. Ho visto la prima puntata della nuova stagione di True detective e si prospetta magnifica come la prima.
Lato ascolti: ho ascoltato l’ultima puntata di Amare Parole, Puntino e riascoltato L’invasione.
Tengo traccia dei libri che leggo su Goodreads. Ci sei anche tu?
🔎[Cosa stiamo facendo] Notizie dal mondo Kanji
Questo gennaio è una fatica! Tatiana riprende il filo da dove l’ha lasciato e cerca di rimettersi in pari. Chiara è alle prese con un progetto complesso. Nulla di drammatico, ma il 2024 è iniziato davvero in salita.
📍Note a piè di pagina
Cerchiamo di usare un linguaggio rispetto e inclusivo. Nel testo potresti trovare questi simboli: « ǝ», «з»
Cosa significano? Sono simboli fonetici [schwa (o scevà)] utilizzati per non fare differenze, rispettando l’identità di genere di ognuno. Il simbolo fonetico /ə/ si usa per le desinenze al singolare. Lo schwa lungo /3/ invece per il plurale. Ne abbiamo parlato in una newsletter: voce del verbo includere.
📍Note a piè di pagina/ 2
Ogni tanto, nei consigli di lettura dei libri che leggiamo, o abbiamo letto, c'è un link con un codice di affiliazione. Questo significa che se clicchi e poi compri una di noi prende una piccolissima percentuale. Qui i dettagli.
È giusto e corretto che tu lo sappia e decida di conseguenza cosa fare. ;)
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