To be or not to be. Business is design?
Portiamo più design nel business, per aumentarne il valore. E portiamo la business analysis nel design, per misurarne il valore portato.
Io sono Chiara e questa è la newsletter di Kanji, quella che parte ogni lunedì mattina per arrivare alla tua casella di posta. Se te l’hanno inoltrata e vuoi iscriverti, puoi farlo da qui.
Sono una neofita del design perciò quello che scrivo può sembrare banale, ma ogni volta che un designer dice che il suo lavoro non viene compreso dal business (e se avessi un centesimo per ogni volta che l’ho letto, sarei milionaria) mi si stringe il cuore per la mancata opportunità per l’impresa alla quale quel/quella designer sta facendo riferimento.
Business is design
Penso al design come progettazione, una metodologia per aprire il pensiero, fare ipotesi, per poi convergere, prendere decisioni, testare e poi ricominciare daccapo. Ecco, questo è business, è il modo in cui pensano e agiscono molte delle persone che fanno impresa.
Ho trovato raramente contenuti sull’equazione imprenditore=progettista, la narrazione comune lo associa più spesso ad altri termini quali ideatore/visionario/stratega oppure a quella dell’uomo del fare, l’imprenditore cresciuto facendo da sé, mettendo le mani in pasta, che conosce a menadito la propria impresa perché negli anni vi ha svolto ogni ruolo possibile, dalla gavetta in poi [ne parlo al maschile perché la narrazione comune, ahimè, è ancora prevalentemente dell’imprenditore maschio].
Fare impresa, oggi, ha molto più a che fare con il progettare che con il fare, il fare è materia sempre più verticale, complessa, specialistica; non basta una vita intera ad acquisire le competenze necessarie per fare il self-made man (e comunque una volta acquisite dovremmo ricominciare daccapo perché nel frattempo l’evoluzione ha cambiato di nuovo tutto).
Molto meglio allora avere buone basi di un po’ di tutto e focalizzarsi sulla metodologia di lavoro, sulle persone che lavorano con te e per te, sui modi per gestire la complessità e trasformarla da paurosa minaccia a opportunità da cavalcare.
Sembra demagogia, ma passare la vita a rincorrere a piedi un treno in corsa è frustrante, oltre che irraggiungibile, mentre progettare la macchina del futuro è molto più fattibile e regala maggiore soddisfazione a tutte le persone coinvolte.
Fare impresa significa anche progettare (o riprogettare) sistemi, processi, flussi e interfacce continuamente, per migliorarne efficacia ed efficienza. Lo stesso vale anche per i sistemi di misurazione del rendimento di un’impresa (la business analysis, ciò in cui sono specializzata) ma questo è solo uno dei tanti settori che coinvolgono il fare impresa, e nemmeno quello principale.
Fare impresa quindi ha molto più a che fare con i principi del design: ricerca, analisi, empatia (come ascolto delle persone, ricerca con), ideazione e realizzazione di un prototipo/MVP e test per poi aggiustare e migliorare.
Design is business?
Quando le eccellenze della community italiana di Design Ops si interrogano se il design abbia a che fare con la redditività, è solo perché sono due mondi ancora molto lontani nella loro concezione.
Qualche tempo fa Domenico Polimeno ha scritto che la funzione di Design Operations ha a che fare con la redditività perché il ruolo di chi gestisce le Operations ha la redditività come KPI più freddo, fattuale e chiaro. “Poi ci possiamo mettere dentro efficacia, efficienza, people happiness ma alla fine della giornata chi fa Design Operations e quindi cura le operations del design ha come redditività la sua northern star.”
La conversazione che ne è nata, ha deviato su come si misura la redditività di un team di design, ne riporto qui qualche stralcio:
“Concordo che si dovrebbe parlare sempre più di valore generato. Ma al di là della maturità di design dell'organizzazione (o di prodotto o di qualunque altra cosa) la redditività è una stella polare di quelle che ti avvicina molto al business.”
“Come fai a oggettivare che il profitto è dovuto al designer e non al bravo product owner o al bravo team di sviluppo?”
“le metriche di operations non sono legate al fatturato, ma generano experience metrics che influenzano il fatturato. DesignOps ha metriche di processo, di sistema, di spesa, di ROI, di spreco, ma secondo me la correlazione tra design e fatturato non è diretta (anche perché una experience è frutto della triade design-prodotto-sviluppo) quindi è davvero complesso definire una reale correlazione diretta fra design e profitto.
“Le Operations nel design hanno un costo? Quanto mi costa un designer su un progetto? Perché se non riusciamo a "snodare" questa cosa allora saremo sempre "intangibili" per il business e quindi un costo intangibile da tagliare.
“se non spieghiamo quanta marginalità produce il Design al netto del costo [...] allora al tavolo del business cosa ci sediamo a fare?”
Credo che il problema alla base sia un modo di procedere a fronti contrapposti, da un lato il design, dall’altro il business, quando in realtà dovrebbero remare entrambi nella stessa direzione, quella dell’impresa di cui fanno parte.
Anche per le Design Ops dobbiamo misurare la redditività, altrimenti non stiamo parlando di operations, ma non con la formula fatturato - costi, bensì come redditività interna dei vari servizi/processi/task.
Perché se le design operations portano chiarezza, consistenza e riduzione delle ridondanze, questo implica una maggiore redditività che non sarà diretta (maggior fatturato o minori costi) ma comunque reale ed effettiva, come ad esempio:
la riduzione delle ore di lavoro delle persone coinvolte in un progetto/servizio/task,
o la possibilità di seguire progetti ulteriori, invece che perdere tempo per recuperare/ideare/modificare una operation mai definita e condivisa a livello aziendale.
Di fatto si tratta sempre di una redditività quantitativa, ma con formule molto più complesse di una semplice sottrazione. La misurazione dell'impatto economico di un'attività può scendere a livelli di complessità più alti e utili, così da poter definire cosa vuol dire avere delle buone Design Ops.
Pensare che la business analysis si limiti a misurare la redditività complessiva di un'azienda in termini di ricavi meno costi è lo stesso tipo di stereotipo che ci fa pensare al design come a quella cosa che migliora l'estetica di un prodotto.
Come il design, anche la business analysis è uno strumento neutro che prova a misurare tutte le componenti di un business, più o meno tangibili; tagliare i costi è la semplificazione più diffusa, quella intrisa di potere decisionale che attrae (e spaventa) di più. Ho lavorato tanti anni nella sanità pubblica, e l’ultima cosa che facevo era proporre tagli agli interventi più costosi e meno efficienti, anzi, il mio compito era quello di misurare l’impatto di queste attività, al di là della rilevazione puramente economica (e chiaramente “in perdita”).
Se vogliamo che chi fa impresa veda i risultati che il design (e le design operations) possono portare al business, possiamo e dobbiamo usare gli strumenti e le tecniche della business analysis: se qualcosa funziona per le persone a cui ci rivolgiamo, allora funziona anche per il business, non importa quanto sia difficile misurarlo.
Buon inizio settimana, buon design,
Chiara (e Tatiana)
📃Il nostro blog/la nostra newsletter
Se vuoi approfondire i temi trattati, sul nostro blog trovi un articolo su cos'è il design, un articolo su cos’è la business analysis e uno su trasformare numeri e parole per creare valore. E in una newsletter di qualche tempo fa, Tatiana ha parlato di DesignOps.
📍Cose che hanno lasciato un segno
Sul tema di questa newsletter un articolo su come calcolare il ROI di un team UX (grazie a Domenico Polimeno per la segnalazione)
È tutto un fiorire di «Best Place to Work» e certificazioni Diversity & Inclusion. Il vaso di Pandora è stato aperto. Valeria Evangistella fa una splendida riflessione sul mondo delle agenzie
E sempre a proposito di quello che sta succedendo nelle agenzie di comunicazione e di come queste vicende sono raccontate: non sono solo fatti incresciosi, la parola giusta per descrivere questi fatti è molestia
Parlare bene, per stare meglio. Sul linguaggio inclusivo
📚🎧📺 Stiamo leggendo/ascoltando/guardando
Le letture, gli ascolti e le visioni di Chiara
Questa settimana di estate piena ho chiuso tutto: fuori dal lavoro sono rimasti spenti telefoni, tablet e TV. Grandi bagni in piscina, grigliate e shopping per le vacanze al mare (settimana prossima, non vedo l’ora).
Unica eccezione: il numero di Vanity Fair diretto da Michela Murgia e dedicato alle forme di famiglia queer, quelle che vanno oltre quella riconosciuta dalla legge italiana. Lo consiglio a tuttз, è un ottimo esercizio per allargare lo sguardo e aprire la mente.
Le letture, gli ascolti e le visioni di Tatiana
Se lo scorso fine settimana l’ho dedicato a scatole e scatoloni, questo invece è stato all’insegna di grandi pulizie: la vecchia casa è pronta per accogliere nuove persone. Ho approfittato per ascoltare podcast. Morning e morning weekend con Luca Misculin, Amare Parole, la puntata di Wolf con Flavio Briatore e l’intero podcast Invertiti con Cathy La Torre e Guglielmo Scilla che straconsiglio.
Con questo caldo e il fatto di essere sempre in movimento, evviva i podcast (e gli audiolibri. Ne hai da consigliarmi?)
Tengo traccia dei libri che leggo su Goodreads. Ci sei anche tu?
🔎[Cosa stiamo facendo] Notizie dal mondo Kanji
Giovedì parliamo in presenza a un evento a tema e-commerce, organizzato insieme agli altri partner di rete Pleiaris. Se sei di queste parti ti aspettiamo a braccia aperte, l’evento è gratuito, ti puoi iscrivere qui.
📍Note a piè di pagina
Cerchiamo di usare un linguaggio rispetto e inclusivo. Nel testo potresti trovare questi simboli: « ǝ», «з»
Cosa significano? Sono simboli fonetici [schwa (o scevà)] utilizzati per non fare differenze, rispettando l’identità di genere di ognuno. Il simbolo fonetico /ə/ si usa per le desinenze al singolare. Lo schwa lungo /3/ invece per il plurale. Ne abbiamo parlato in una newsletter: voce del verbo includere.
📍Note a piè di pagina/ 2
Ogni tanto, nei consigli di lettura dei libri che leggiamo, o abbiamo letto, c'è un link con un codice di affiliazione. Questo significa che se clicchi e poi compri una di noi prende una piccolissima percentuale. Qui i dettagli.
È giusto e corretto che tu lo sappia e decida di conseguenza cosa fare. ;)
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