Sono ormai due mesi che lavoro senza sosta, si salvano solo le domeniche. Nel frattempo è cresciuta l’erba nel nuovo giardino di casa e io non vedo l’ora di tirare fuori la piscina e mettermi a mollo per sempre.
Io sono Chiara e questa è la newsletter di Kanji, quella che parte ogni lunedì mattina per arrivare alla tua casella di posta. Se te l’hanno inoltrata e vuoi iscriverti, puoi farlo da qui.

Qui in Kanji ci occupiamo di progettazione strategica: aiutiamo persone e imprese a scegliere la direzione verso cui vogliono andare, le persone con cui entrare in contatto, le attività da mettere in piedi, i costi da sostenere e i contratti da negoziare.
Poi, dopo tutto questo gran lavoro, dopo aver definito cornice, contesto e significato, resta il fare, l’agire quotidiano di ogni singolo giorno, dalla mattina alla sera.
Senza progetto, l’azione è caotica, involuta, poco efficace. Senza l’azione, il progetto resta un inutile esercizio teorico.
Astrazione progettuale e concretezza operativa
Nella mia esperienza, le persone più propense alla progettazione spesso sono le più deboli in fase attuativa e, viceversa, quelle più brave nella concretezza del fare sono invece meno propense al pensiero progettuale di lungo periodo.
C’è una cliente che deve rivedere la gestione del magazzino della sua impresa. Nel lavoro insieme, se restiamo troppo sull’astratto si blocca, non riesce a visualizzare ciò che ancora non c’è e quindi non riesce a scegliere. Questa persona ha bisogno di concretezza per ripensare l’organizzazione dei continui movimenti di magazzino.
Alle persone come lei, alle quali la visione progettuale arriva solo dopo aver messo le mani in pasta, di solito consiglio di darsi un budget di tempo e di soldi in cui fare, fare, fare, per poi fermarsi una volta finito il periodo deciso, e valutare com’è andata (nell’Agile questo momento si chiama retrospettiva).
C’è un altro cliente che deve disegnare processi di registrazione contabile efficaci e tempestivi. È l’opposto della persona di prima: è molto capace quando si tratta di creare modelli astratti, ma poi fatica a metterli a terra con le persone del suo team, li rivede continuamente e non riesce a fermarsi nel fare quotidiano.
Alle persone come lui, più forti nel progettare, consiglio di aggiungere, già nella fase iniziale del progetto, dei piccoli obiettivi concreti e significativi, per evitare di perdersi in continue ri-progettazioni (prima ancora di avere un solido prototipo da testare) e per focalizzarsi sul capire cosa manca, in concreto, per realizzare ciò che hanno in testa.
Ci sono tante altre persone, credo la maggioranza di noi, che sono un misto tra questi due estremi, un mix di punti di forza e di debolezza, sia dal punto di vista progettuale, sia dal punto di vista dell’azione quotidiana. Io, ad esempio, ho bisogno di alternare astrazione filosofica (dove dopo un po’ mi perdo) e profonda concretezza (che dopo un po’ mi annoia) e riesco a progettare bene un qualcosa solo se alla base c’è stato un mio vissuto concreto, anche solo una volta nella vita.
C'è chi dice che serve un metodo e c'è chi dice che serve visione, a seconda del guru che ascolti c’è chi dà predominanza a uno o all’altro elemento.
Secondo me servono entrambe le competenze, sono le due metà di una stessa mela. È importante fermarsi, ogni tanto, e chiedersi:
Quanto è forte la mia capacità di astrazione progettuale?
Di cosa ho bisogno per progettare il futuro della mia impresa?
Quanto sono capace di eseguire compiti operativi?
Di cosa ho bisogno per portare a casa il risultato che mi aspetto?
Quali sono gli aspetti del mio lavoro che rimando più spesso e poi mi auto flagello perché non li ho affrontati quando era ora?
Farsi queste domande serve a identificare il nostro lato più debole e investirci in modo prioritario e significativo. A volte, basta abilitare conversazioni, confronti o supporti, per far emergere la consapevolezza e la via per migliorarsi. Quasi sempre serve anche un business plan, che metta insieme l’agire quotidiano con la progettazione strategica.
In che senso un business plan?
Non sto pensando ai business plan per ottenere finanziamenti, che sono quelli a cui associamo questo termine in modo automatico, ormai. Quel tipo di business plan ha una finalità soprattutto comunicativa, perché il suo scopo è dire “vedi? So dove sto andando, puoi affidarmi i tuoi soldi senza problemi. Puoi fidarti di me, ho un piano infallibile”. Poi, a seconda dell’interlocutore, deve contenere previsioni economico-finanziarie più o meno dettagliate.
Il business plan a cui mi riferisco qui è uno strumento programmatico interno, difeso dal segreto industriale, che riassume come un’impresa ha intenzione di mettere a terra (azione quotidiana) il suo modello di business (progettazione strategica) da qui ai prossimi 12-18 mesi.
Nella cultura tradizionale dell’impresa manifatturiera si chiamava piano industriale, perché in quel contesto non c’era bisogno di definire un modello di business specifico, bastava adottare il modello standard del settore e focalizzarsi su come attuarlo da un punto di vista operativo e concreto, declinato per linee di produzione, commesse e tempistiche di distribuzione.
Oggi lo possiamo chiamare come vogliamo purché abbia tutti gli elementi che ci servono per pianificare efficacemente le nostre azioni in ottica strategica, verso la direzione in cui vogliamo andare.
A ogni persona il suo (business) plan
Le persone più forti nell’operatività sono più attente al breve periodo e a quel che serve per far funzionare le cose giorno per giorno; d’altro canto spesso si perdono cosa serve seminare oggi per poter arrivare domani dove vorrebbero. Queste persone hanno più bisogno di un business plan visionario, che ricordi loro il bisogno di mercato a cui rispondono e la unique value proposition della loro impresa, ma anche come hanno scelto di investire il loro capitale e quali sono i costi che possono sostenere in base alle loro disponibilità finanziarie.
In questo modo sarà più facile, in mezzo all’operatività quotidiana, tenere degli spazi dedicati alla riflessione strategica, sia in termini di decision-making (ad esempio: perché potrebbe essere interessante un incontro con la nuova realtà incontrata in fiera) sia in termini di verifica e revisione delle attività concrete (ad esempio: rispetto all’ultima assistenza cliente fornita, quanto era in linea con l’identità di brand e i valori).
Le persone più forti nel pensiero strategico hanno ben chiaro dove vogliono arrivare, basta loro un budget iniziale di massima per iniziare a muoversi, testare e vedere cosa succede. Queste persone hanno più bisogno di un business plan analitico che integri il design di processo con la mappa puntuale dei costi di ogni singola attività eseguita (in termini tecnici si chiama activity based costing), serve un business plan che espliciti le attività concrete di lavoro che devi eseguire, le risorse che richiedono, il loro costo e le loro modalità di remunerazione.
Un business planning di questo tipo è molto più complesso e difficile da realizzare, perché richiede sia la progettazione puntuale di come funziona un’impresa, sia tutta una serie di misurazioni non banali. Di contro, quando le previsioni impattano con la realtà, permette di ri-progettare solo ciò che serve, in modo molto più puntuale e chirurgico, per riuscire a generare risultati concreti e tangibili.
Come prima quando scrivevo di persone, anche qui, tra due possibili estremi di business plan ci sono nel mezzo infinite possibilità intermedie. Quanto spingersi più da un lato o dall'altro, dipende molto dal contesto, dal momento e dalla capacità di immaginare un futuro che, in quanto tale, non è ancora stato scritto e sarà almeno in parte diverso da come riusciamo a pensarlo oggi.
L’importante, io credo, è riuscire a identificare cosa serva e poi, con grande umiltà, chiedere aiuto a chi è più capace di noi.
Buona settimana, buone riflessioni,
Chiara (e Tatiana)
📃Abbiamo parlato di
📍Cose che hanno lasciato un segno
Consigli di lettura non richiesti, di Marco Bertoni su LinkedIn
Non ci credono più, di Roberta Zantedeschi su LinkedIn
📚🎧📺 Stiamo leggendo/ascoltando/guardando
Le letture, gli ascolti e le visioni di Chiara
Ho divorato Derry girls, su Netflix, personaggi meravigliosamente veri portati all’eccesso con quell’ironia tutta anglosassone che adoro, grazie a Malou per lo spunto. Aspetto la quarta stagione con trepidazione.
Ho letto diverse newsletter, tra le quali ho apprezzato particolarmente Emergenze di Andrea M. Alesci, Io sono un mastino di BalenalaB, Game Over di Simona Sciancalepore e Troppo intelligente per essere felice di Elena Panciera.
Nelle ore di viaggio ho ascoltato un paio di puntate di Serendipity, podcast di divulgazione scientifica un po’ lento da seguire ma molto interessante.
Le letture, gli ascolti e le visioni di Tatiana
Letture. Sempre alle prese con lo studio per progettare due nuovi corsi, ho messo in pausa la narrativa. Per ora, almeno. Mi rifaccio però con i podcast, che ascolto sempre quando sono in movimento. Come la scorsa settimana: più di mille chilometri macinati da ovest a est e tanto tempo per ascoltare (e imparare) cose nuove.
Ascolti. Proseguo con i soliti ascolti: Sigmund, Amare parole, Orazio di Matteo Caccia, Morning con Nicola Ghittoni. Come scrivevo più su, ho approfittato del viaggio in auto per recuperare un po’ di vecchie puntate dei miei soliti podcast, ascoltare Wilson, il nuovo podcast di Francesco Costa e scoprirne di nuovi: Totale di Jonathan Zenti e Sblocco il blocco di Simona Sciancalepore.
Tra gli ascolti, però, segnalo i due appuntamenti della lunga trasferta: al WMF, dove ho presenziato come Architecta (la sala era gestita da noi), ho ascoltato interventi super interessanti, sia nella nostra sala, sia nelle altre: Vera Gheno (sempre emozionante ascoltarla dal vivo), Cathy La Torre, Francesca Pulina e Gabriele Malaspina mi hanno dato molto. A Deliver Growth applausi continui per Margherita Galluzzo e Giorgio Soffiato (due interventi pazzeschi) e grande ispirazione dalla tavola rotonda. Qui qualche ricordo.
Visioni. Mentre aspetto la nuova stagione di The bear, sono immersa nella nuova stagione di Mare fuori e in Belve, il programma di Francesca Fagnani (RaiPlay).
La fine di The Blacklist mi ha lasciato un vuoto enorme.
Tengo traccia dei libri che leggo su Goodreads. Ci sei anche tu?
🔎[Cosa stiamo facendo] Notizie dal mondo Kanji
A proposito di retrospettive, la prossima settimana ne faremo una dedicata a questa newsletter, se hai qualche spunto o riflessione che vuoi condividere ti leggiamo con interesse e gratitudine.
📍Informazioni di servizio
Cerchiamo di usare un linguaggio rispetto e inclusivo. Nel testo potresti trovare questo simbolo: « ǝ». Cosa significa? È un simbolo fonetico [schwa (o scevà)] utilizzato per non fare differenze, rispettando l’identità di genere di ognuno. Ne abbiamo parlato in una newsletter: voce del verbo includere.
Ogni tanto, nei consigli di lettura dei libri che leggiamo, o abbiamo letto, c'è un link con un codice di affiliazione. Questo significa che se clicchi e poi compri una di noi prende una piccolissima percentuale. È giusto e corretto che tu lo sappia e decida di conseguenza cosa fare. ;)
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Grazie per la citazione! E per la bella puntata sull'azione quotidiana, che è una progettazione continuativa.