Qui l’estate è scoppiata con tutte le caratteristiche tipiche del surriscaldamento globale. Intorno a me vedo la terra riarsa e le piante con le foglie all’ingiù, sento la Terra soffrire e provo a prendermene cura ogni giorno di più.
Esiste un punto di non ritorno?
Sicuramente sì, ma è talmente difficile calcolarlo con precisione che nel frattempo ci nascondiamo dietro alla possibilità di esserne ancora lontani.
Un po’ come certi business con i campanelli d’allarme che suonano intorno a loro: se sono in piedi da così tanto tempo, non c’è nulla che li possa mettere in seria difficoltà, di certo supereranno anche la prossima crisi. Oppure no?
Io sono Chiara e questa è la newsletter di Kanji, quella che parte ogni lunedì mattina per arrivare alla tua casella di posta. Se te l’hanno inoltrata e vuoi iscriverti, puoi farlo da qui.

L’altra mattina, durante il mio journaling quotidiano, ho incontrato la parola “trascurabile”, riferita a un lieve dolore che, identificate le cause, potevo mettere da parte e non pensarci più.
Mi ha fatto riflettere, perché “trascurabile” è qualcosa di cui può tenersi poco o nessun conto (fonte: Treccani) ed è un termine che uso spesso, anche nel lavoro: nelle analisi di scostamento, nelle previsioni economiche e, più in generale, in tutte quelle situazioni in cui devo analizzare più elementi e trovare quelli rilevanti e quelli, appunto, trascurabili.
Ad esempio, quando faccio una verifica di andamento economico, trovo sempre delle variazioni rispetto al consuntivo del periodo precedente o rispetto a un valore previsionale. Il mio lavoro consiste nell’anaIizzare queste variazioni per capire quali sono quelle significative e per supportare le persone che devono prendere delle decisioni in merito.
Il problema, e il nocciolo della questione, è l’insieme dei criteri che utilizziamo per decidere cosa è rilevante e cosa è trascurabile. Un insieme parecchio multiforme, soggettivo e soggetto a bias di ogni tipo.
Spesso, nelle imprese vedo che l’attenzione si ferma per lo più su alcuni tipi di variabili:
quelle con cui ci si misura rispetto ai competitor (fatturato, numero di dipendenti, utile d’esercizio, ecc.)
le variabili che hanno creato problemi in precedenza (un’impresa che ha nel suo passato un guaio finanziario, ad esempio, prende in seria considerazione tutte le fluttuazioni di cash flow)
le variabili che si riescono a misurare in modo oggettivo (es: guasti della linea di produzione, contatti al customer service, ecc.)
le variabili riferite alle attività e ai processi che conosciamo meglio.
Così facendo però rischiamo di trascurare elementi fondamentali per la buona riuscita complessiva; un esempio valido pressoché per tutti, la qualità delle relazioni interpersonali all’interno dell’ambiente di lavoro.
Indagare, cercare le cause, richiede prima la capacità di prendere in considerazione tutti gli elementi in gioco e solo in seguito fare un’ipotesi su quali siano quelli più rilevanti.
L’analisi e la ricerca richiedono molto tempo e energia, perciò è naturale provare a farla il più velocemente possibile. Però più lo sguardo è veloce, più è soggetto ai bias di cui sopra; più lo sguardo è veloce, più aumenta il rischio di non vedere i problemi. Ma nessuno di noi è troppo grande per fallire.
Too big to fail
A inizio giugno, un consulente finanziario che stimo molto, Andrea Boffa, scriveva nella sua newsletter: “il fatto è che il dollaro e il debito americano «non possono andare male» visto che una rottura di tale sistema porterebbe il mondo in territori inesplorati.”
Too big to fail è il concetto secondo il quale certe imprese, banche o Stati sono considerati troppo grandi e troppo importanti per poter fallire. E quindi, in caso di difficoltà, ci dev’essere un qualche intervento pubblico che tappi la falla, per impedire che quella barca affondi e l’intero sistema vada in crisi.
Nonostante io non lavori con organizzazioni di quella grandezza trovo che spesso, anche in imprese più piccole, questo assunto sia comunque implicito in determinati comportamenti: “se mi è sempre andata bene, succederà così anche questa volta, succederà qualcosa che mi tirerà fuori dai guai, no worries”.
Da un lato sono d’accordo: serve un po’ di sicurezza e di ottimismo per andare avanti; i problemi si affrontano e gli ostacoli si superano. Non ha senso farsi prendere dal panico o vivere continuamente sotto stress.
Dall’altro lato, però, il confine con un’eccessiva confidenza è sottile, perché di solito tendiamo a rimuovere i problemi che sentiamo lontani, quelli che non siamo in grado di affrontare e quelli che sono vaghi e indeterminati.
Ma se oggi come oggi è in bilico il debito americano, crediamo davvero che non possa fallire la nostra impresa da 50 (o anche solo 5) milioni di fatturato annuo?
Mentre abbiamo fiducia nei risultati raggiunti e teniamo alta la speranza per un futuro ancora migliore, chiediamoci con grande coraggio e onestà intellettuale: quanto sta davvero andando bene? Oppure, quanto è grave la situazione?
Spesso ci facciamo bloccare dalla paura, abbiamo paura di sapere o di scoprire elementi (negativi) che non avevamo previsto. Invece, credo che, se conosciamo lo stato reale delle nostre imprese, possiamo farci coraggio, fare leva su quello che di buono c’è e lavorare per migliorare il resto.
Se ci raccontiamo bugie possiamo sentirci meglio in prima battuta, ma sul lungo quelle bugie verranno a galla moltiplicate a dismisura.
Che si parli di business o si parli di clima, l’approccio resta lo stesso: dobbiamo avere il coraggio di prendere in carico la situazione attuale, studiarla e guardarla per come è davvero, non per come ci piace raccontarcela. È deprimente? Va bene, deprimiamoci un attimo, arrabbiamoci con chi è venuto prima di noi e ci ha lasciato questo pasticcio, ma poi rimbocchiamoci le maniche, progettiamo un cambiamento e mettiamolo in atto.
Buon lunedì, buona azione,
Chiara (e Tatiana)
📃Abbiamo parlato di
📍Cose che hanno lasciato un segno
Unioncamere: nel 2024 le aperture di imprese sono in crescita ma le chiusure accelerano
Global Bankruptcy Report 2025: le insolvenze hanno raggiunto, nel 2024, il livello più alto dell’ultimo decennio.
Sempre più imprese hanno perso interesse per la D&I da un giorno all'altro, magari dopo aver incassato dubbie certificazioni sulla parità di genere.
Perché odiamo le agenzie. Un’intervista ad Andrew Wilkinson di Giulio Michelon
📚🎧📺 Stiamo leggendo/ascoltando/guardando
Le letture, gli ascolti e le visioni di Chiara
Settimana povera di TV, podcast e libri. Ho passato tutto il tempo libero all’aperto, in acqua e nel verde, con amicizie vecchie e nuove, l’estate che piace a me sta finalmente arrivando.
Ho letto alcune newsletter, tra le quali ho apprezzato particolarmente The Reflective Practitioner vs. the Cult of Speed di Marzia Aricò e Denti bianchi di Dario Marchetti.
Nelle ore di viaggio ho ascoltato Post mortem, l’ultimo album de I cani, e mi sta piacendo moltissimo.
Le letture, gli ascolti e le visioni di Tatiana
Letture. Immersione tra manuali, schemi, dispense, ma con qualche lettura leggera. Ho finito La Governante di Csaba dalla Zorza: carino. Gli ho dato 3 stelle su cinque su Goodreads perché mi aspettavo qualcosa di più nella storia. La scrittura invece piacevole. Ho ripreso Il mago delle parole di Giuseppe Antonelli, mentre mi godevo l’ombra seduta su una sdraio sul mini balcone.
Ascolti. Proseguo con i soliti ascolti: Amare parole, Orazio, Morning con Nicola Ghittoni. Nuove ossessioni: Wilson, il nuovo podcast di Francesco Costa che esce ogni giovedì, ma che ogni tanto regala puntate extra super interessanti. Tra l’altro, è ancora libero e non riservato a chi si abbona a Il Post. Ho ascoltato l’intervista a Cristina Fogazzi su One more time di Luca Casadei (puoi ascoltarlo subito e, da martedì, anche vederlo).
Visioni. L’attesa è quasi finita: è iniziato il countdown per la nuova stagione di The bear. La nuova stagione di Pesci piccoli è deliziosa. Te la consiglio, soprattutto se lavori nella comunicazione e nel marketing (ma non solo).
Tengo traccia dei libri che leggo su Goodreads. Ci sei anche tu?
🔎[Cosa stiamo facendo] Notizie dal mondo Kanji
Questa settimana nuovo appuntamento con un’impresa che sta affrontando un passaggio generazionale bello tosto, sfidante e motivante insieme. Prossimo lunedì ultima newsletter prima della pausa estiva.
📍Informazioni di servizio
Cerchiamo di usare un linguaggio rispetto e inclusivo. Nel testo potresti trovare questo simbolo: « ǝ». Cosa significa? È un simbolo fonetico [schwa (o scevà)] utilizzato per non fare differenze, rispettando l’identità di genere di ognuno. Ne abbiamo parlato in una newsletter: voce del verbo includere.
Ogni tanto, nei consigli di lettura dei libri che leggiamo, o abbiamo letto, c'è un link con un codice di affiliazione. Questo significa che se clicchi e poi compri una di noi prende una piccolissima percentuale. È giusto e corretto che tu lo sappia e decida di conseguenza cosa fare. ;)
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